Tutto quello che avresti voluto sapere sulla pizza e non hai mai osato chiedere
Per alcuni solo la napoletana – che è certo la più storica e la più famosa, e per chi scrive anche la più buona, ma solo se fatta come si deve, il che anche a Napoli non sempre avviene – avrebbe il diritto di essere chiamata pizza, e qualcuno arriva addirittura a dire che solo le varianti più canoniche (Margherita e Marinara) sono tali. Per altri, magari cresciuti a diverse latitudini, la pizza è quella sottile e croccante, di tradizione romana, certamente più leggera da mangiare (ma non sempre da digerire). E poi ci sono le pizze al taglio, quelle fritte, quelle dall’impasto alto e soffice che viene utilizzato spesso come base “pura” per condimenti elaborati (o anche per squisite versioni più classiche) e quelle che non sono né una cosa né l’altra, ma sono semplicemente buone.
Insomma, in Italia – per non parlare del resto del mondo, ma poi la storia diventerebbe troppo lunga – la pizza è protagonista di una “diversità” simile a quella (dovuta alla natura più che all’uomo, naturalmente) di molti altri prodotti. E pure in questo caso, ci sembra una grande ricchezza di cui andare fieri e contenti, visto che ciò vuol dire poter mangiare tante diverse, buonissime pizze – di tipo diverso – dalle Alpi alla Sicilia.
Proviamo allora a tracciare una piccola “mappa” – non per forza geografica, visto che la cosa più bella è che oggi si trovano delle strepitose “napoletane” anche a Milano o in Brianza, e degli ottimi esempi di pizza “a degustazione” anche da Roma in giù – dei diversi tipi di pizza diffusi in Italia, prendendo come criteri principali di differenziazione (ma più per gioco che con pretesa di rigore scientifico) la forma e l’altezza del cornicione.
Breve compendio ai diversi tipi di pizza diffusi in Italia: dalla napoletana alla romana, alla pizza da degustazione
Pizza Napoletana
Punto di riferimento imprescindibile nell’universo-pizza, a Napoli la pizza è un cibo quotidiano ma anche una vera filosofia di vita. La vera pizza napoletana è soffice e sottile – facile da ripiegare su sé stessa e da mangiare per strada, all’occorrenza, come la famosa “pizza a libretto” – tranne che nel cornicione, che di solito è un po’ più spesso, a volte bolloso per via della lievitazione, per racchiudere e delimitare il condimento e permettere di mangiare lo spicchio con le mani. Altra caratteristica fondamentale è la “scioglievolezza”, cioè la perfetta fusione tra pasta e condimento che permette di mangiare tutto in un solo boccone (anche se abbiamo visto persone applicarsi nell’impresa di levare il fiordilatte o altri ingredienti dalla pizza e ce ne stiamo ancora chiedendo il perché). Obbligatoria la cottura nel forno a legna, non per vezzo ma perché le alte temperature e il ridotto tempo di cottura (60-90”) determinano il risultato finale, anche se ormai alcuni forni elettrici o soprattutto a gas di nuova generazione riescono a replicarlo alla perfezione.
All’interno della stessa città e della Campania in generale, poi, ci sono ulteriori “sotto-categorie” di pizza napoletana che dipendono dalla zona o dall’adesione più o meno stretta del pizzaiolo alla tradizione. Si va dalle cosiddette pizze “a rota di carro” (sottili e larghe, spesso più del piatto, e dalla forma piuttosto irregolare perché stese più del normale proprio per risultare più grandi) tipiche del centro storico, come Da Michele da Sorbillo – alle “pizze canotto” di recente diffusione, spesso perfettamente tonde e con il cornicione talmente esagerato (a causa dell’alta idratazione e della maturazione estrema ma pure della tecnica di stesura adoperata) da sembrare appunto un gommone, risultando però – nei casi migliori, come da Giuseppe Pignalosa a Le Parule a Ercolano, da Diego Vitagliano da 10 Vitagliano a Pozzuoli o da Francesco Martucci a I Masanielli a Caserta – talmente leggero e arioso da non far rimpiangere il condimento sacrificato a causa della minore superficie della pizza. La versione più diffusa, ad ogni modo, è una sana via di mezzo, con un cornicione più pronunciato del resto della pizza, leggero e saporito, che si mangia con piacere. Per esempio quella di Enzo Coccia da La Notizia o di Ciro Salvo da 50 Kalò.
Pizza Romana
Sottilissima, ampia e piuttosto croccante (se non addirittura “scrocchiarella”). Così i romani amano la loro pizza, anche se in città crescono sempre più gli estimatori della Napoletana o della nuova tipologia intermedia che possiamo definire “all’italiana” (o, in alcuni casi, “né romana né napoletana” a indicare una via di mezzo tra le due).
Nella pizza romana tradizionale il cornicione quasi non esiste, anche perché spesso l’impasto – cui in alcuni casi è aggiunto anche un po’ d’olio – viene steso con il matterello, che elimina tutta l’aria creata dai gas della maturazione e lievitazione portando al cosiddetto “effetto cracker”, ulteriormente rafforzato dalla cottura nel forno elettrico.
Vittima – come per la pizza napoletana negli ultimi decenni prima della sua “rinascita” – di lavorazioni frettolose e di scarsa attenzione alla qualità anche da parte dei consumatori, pure la pizza romana sta conoscendo un periodo di nuovo fermento e oggi sono diversi i locali della Capitale che ne propongono versioni di tutto rispetto: da Emma a Giulietta, ma soprattutto al nuovo 180g Pizzeria Romana, la pizzeria aperta da Jacopo Mercuro e Mirko Rizzo a Centocelle proprio per dare nuova dignità a questa tipologia.
Pizza all’italiana
Non sapendo bene come definire questa tipologia più recente, non essendo legata a una precisa origine territoriale, si è deciso di chiamarla “all’italiana”. Abbraccia un po’ tutto quello che non è né napoletana, né romana, né da degustazione (vedi dopo), ed è in qualche modo un punto d’incontro tra le tre, ma aperto alla libera interpretazione che ogni pizzaiolo decide di darne.
Che di solito vuol dire: impasto scioglievole ma leggermente meno soffice (e talvolta meno sottile al centro, ma con cornicione meno pronunciato e a volte leggermente biscottato anche in base all’idratazione e al tipo di farina e di cottura scelte, se in forno a legna o elettrico) di quello della pizza napoletana, condimenti che vanno dal classico al creativo, senza però perdere la caratteristica fusione con la base, e ingredienti spesso ricercati tra i prodotti tipici locali, rendendo la pizza stessa una perfetta interprete del territorio e un bel modo per raccontarlo, essendo accessibile e apprezzata da tutti.
Tra gli esempi migliori di questa tipologia, per quanto diverse tra loro, possiamo citare le pizze di Berberé nelle diverse sedi nazionali o di ‘O Fiore Mio a Faenza, ma pure quelle romane di Sforno o La Gatta Mangiona (quest’ultima sempre più vicina alla napoletana “moderna”).
Pizza da degustazione (non chiamatela pizza gourmet!)
Battezzata inizialmente “pizza gourmet” per la decisa ispirazione all’alta cucina e per l’uso – equilibrato e ragionato negli esempi migliori, ma talvolta esagerato e senza un pensiero preciso alla base – di ingredienti pregiati solitamente appannaggio della ristorazione, oggi questo tipo di pizza viene definita “da degustazione”, anche perché tra le sue caratteristiche c’è quella di essere servita al tavolo già divisa in spicchi, ognuno dei quali viene guarnito singolarmente con tutti gli ingredienti in modo da comporre un “boccone ideale”, ed è perfetta da condividere al tavolo con gli altri commensali, ordinandone diversi tipi da assaggiare uno alla volta evitando che si raffreddi.
In questo caso l’impasto – solitamente più alto del solito e omogeneo, arioso e leggero, senza cornicione e perfettamente tondo perché precotto in stampi o padellini e poi scaldato all’ultimo momento per renderlo un po’ croccante e più piacevole – è quasi solo una base (per quanto gradevole) per il condimento, che rimane un po’ slegato. La scelta di farine e impasti particolari, però, riesce spesso a esaltare anche il sapore del topping.
Il maestro indiscusso del genere è Simone Padoan a I Tigli di San Bonifacio, ma sono diversi i pizzaioli che hanno deciso di seguire le sue orme a cominciare da Marzia Buzzanca da Percorsi di Gusto a L’Aquila.
Altre forme e tipi di “pizza”
Come accennavamo, ci sono molti altri tipi di pizza in Italia, più o meno tradizionali. A parte la pizza fritta – vera regina delle strade napoletane, e ultimamente alla riscossa anche in altre città – pensiamo ad esempio alla pizza al taglio, grande must romano ma non solo. Anche se è vero che in quel caso siamo davanti – per forma, consistenza e modalità di consumo – a qualcosa di più simile a una focaccia, nessuno si sognerebbe mai di contestare l’uso della parola “pizza” riferendosi all’imprescindibile e delizioso binomio con la mortadella, ad esempio, né tantomeno a una delle strepitose creazioni (dalle super classiche come quella con le patate, o la “rossa”, fino a quelle decisamente “fuori di testa”) di Gabriele Bonci al Pizzarium.
Poi c’è spazio per la novità e la sperimentazione, e a giudicare dai risultati non abbiamo dubbi che sia una gran fortuna. Pensiamo per esempio ai buonissimi Trapizzini di Stefano Callegari – tasche triangolari di pasta da pizza in teglia farcite con i sughi veraci della tradizione romanesca, o con qualunque cosa venga in mente a Stefano, oggi presenti da Roma a New York e oltre – ma pure alle pizzette tonde farcite in maniera golosa proposte da Trieste Pizza – a Pescara, a Roma e pure a Londra – o da Le Padelline, sempre a Roma.
O, ancora, alle “degustazioni” di pizza in teglia (a base d’impasti alti, soffici e un po’ croccanti in superficie, spesso frutto di sperimentazioni su farine, impasti e lieviti) condita con condimenti elaborati e vere e proprie “ricette” proposte da Luca Pezzetta all’Osteria di Birra del Borgo a Roma, che è un po’ un incrocio tra la teglia classica e la pizza a degustazione tonda.
Insomma, per noi è tutta pizza quella che è buona pizza.
E tu, di che pizza sei fatto?
[Credits fotografici: Pizza on the road/Alessandra Farinelli; Pizza on the road/Luciana Squadrilli; Erica Battellani; Simone Padoan; Gabriele Bonci; Trapizzino]
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Francesco says
Conoscete la pizza pisana?non appartiene a nessuno di questi tipi, e nell impasto c’è anche lo strutto, viene cucinata in teglie d’acciaio.
È di una bonta incredibile.