Parafrasando Seneca, è inutile viaggiare se ci si porta dietro se stessi. E poiché ogni esperienza culinaria è sempre un viaggio, occorre ricordarsi di tale massima quando si entra in un ristorante – che sia un’osteria o un tristellato – o si mangia cibo di strada. Se però, per chi è appassionato di enogastronomia, è abbastanza semplice spogliarsi delle proprie vesti culinarie per indossare quelle altrui – una cucina di un’altra regione, paese, stile – complice la fascinazione per l’esotico e la curiosità per nuovi sapori o nuove preparazioni, il salto mortale (sia per l’avventore che per lo chef) è il confrontarsi con la cucina di casa, quella per cui in agguato c’è sempre la sindrome del “miamammalofapiùbuono!!”.
La sfida più grande dei fratelli Panizza – titolari a Genova di un piccolo impero gastronomico (Rossi), fatto da confetteria, gelateria naturale, e altri punti vendita dedicati a olio, pasta, caviale e vari bendiddio – si chiama Il Genovese, ed è una trattoria aperta in sordina da un paio d’anni e sempre più nota in città e fuori. Chiamare un locale in questo modo è segno deliberato di un misto fra incoscienza, masochismo e autostima supremi, dato che, oltre a ingenerare la sindrome di cui sopra, scatena anche quella da “cel’hopiùautoctono”, e infine rimanda all’immaginario dell’ospitalità ligure tristemente nota dei mitici sketch di Balbontin-Casalino-Ceccon, lasciando quindi temere il trattamento diffuso in città (ma sta cambiando, evviva!), del tipo cucina chiusa alle 21.30, espressione incazzosa del titolare e dello staff tutto, attenzione minima alla presentazione dei piatti, ecc.
Fughiamo ogni dubbio sull’accoglienza: entrando per la prima volta (un sabato), ho domandato se amici che sarebbero arrivati alle 23 avrebbero trovato ancora qualcosa da mangiare aggiungendosi a chi era già al tavolo; il via libera è stato convinto e spettacolari i tagliolini con funghi e muscoli – vi prego, a Genova non chiedete le cozze!!! – toccati in sorte agli ultimi arrivati. E titolari e staff sono attenti e cordiali anche nel rimediare a un’attesa un po’ più lunga o all’assenza di un vino segnalato in carta.
L’offerta del menu prevede davvero tutto ciò che un genovese dovrebbe aver mangiato almeno una volta nella vita: fra gli antipasti, le acciughe marinate e quelle fritte, le torte e i ripieni di verdura, la cappunnadda (sorta di panzanella fatta con gallette di marinaio); fra i primi, soprattutto, la trimurti composta dai ravioli au tuccu (sugo di carne alla genovese, cucinato lasciando praticamente disintegrare la carne nei suoi umori, con pinoli ed erbe aromatiche), dagli gnocchi al pesto (ma anche i mandilli de sea, ovvero lasagnette sottili) e dai pansoti (pasta ripiena di verdure selvatiche e ricotta) al sugo di noci; fra i secondi, la cima (carne ripiena di uova, animelle, piselli, parmigiano, pinoli), le polpette alla genovese, lo stoccafisso accomodato, le trippe in umido, il coniglio alla genovese e il baccalà in pastella. I dolci vedono la tradizionale presenza di latte dolce fritto, canestrelli e pinolata.
Come bonus, ci sono ottimi piatti del giorno (chiaramente di stagione), dalla ricciola ai funghi e patate alla buridda di seppie, per fare due esempi. L’attenzione alle materie prime è altissima (strepitosa la tartare di cabannina, razza bovina autoctona delle valli genovesi, quasi estinta per l’ottusità di una legge di qualche decina di anni fa) e tendente al km zero, complice il dirimpettaio mercato comunale, probabilmente il migliore della città. La carta dei vini, divisa ironicamente in “Liguria” e “Resto del mondo” è interessante per una trattoria, soprattutto sui vini locali, e con ricarichi davvero onesti.
I ravioli sono davvero buoni, con il tuccu molto casalingo, le acciughe sempre ottime in ogni visita (4 negli ultimi due mesi) così come le trippe, la cima (raro trovarla così fuori casa) e lo stoccafisso. Ripieni e torte di verdura interessanti, con una preferenza per i primi. Ottimi anche il minestrone e il coniglio. Il conto in due, considerando tre piatti a testa e una bottiglia di vino, supera difficilmente i 65 euro. E il pesto? Beh, molto ben fatto, al mortaio, ma… miamammalofapiùbuono! 😉