
Che ci sia finalmente un Taste Festival a Roma è un bene, una boccata d’ossigeno nella ristorazione romana, che esce dalle cucine superstellate piuttosto costose e si cimenta nel proporre piccoli piatti a 5-6 euro. Un modo di educare la gente a una gastronomia per niente scontata, che pur partendo spesso dalla tradizione, la rielabora con tecnica e crea piatti del tutto innovativi.
Ma non mancano i ma. Non si possono solo tessere le lodi di un evento, specialmente alla prima edizione, è anche giusto segnalare qualche piccola netiquette riscontrata, che sarebbe facile correggere. Andiamo con ordine: l’arrivo. C’è una linea dedicata all’Auditorium (la “M”, come musica) che funziona di solito dopo le 18. Il suggerimento sarebbe di fare un accordo con l’Atac per farla transitare dalla mattina nei giorni di Taste, come succede anche alla Festa del Cinema. Quindi i biglietti, ben 16 euro a ingresso, cui aggiungere i “sesterzi” da caricare in una specie di carta di credito all’entrata. Beh, avremmo apprezzato innanzitutto che almeno il costo di quei 16 euro fosse giornaliero, visto che alle 15.30, inesorabilmente, Taste e tutti gli stand chiudevano. E se uscivi non potevi rientrare senza pagare nuovamente. Un errore a nostro avviso, specialmente nel weekend, quando la gente si sveglia tardi e ha più voglia di un brunch che di un pranzo a orario canonico. Niente da dire sugli chef in campo, 12 fra i migliori della capitale, con varie stelle nel piatto. Qualche perplessità in più invece sugli espositori, che spaziavano dai grandi marchi commerciali ai piccolissimi produttori di pregio, passando per gli stand dedicati agli addetti ai lavori (ad esempio quello sul packaging riciclabile). Ok la varietà, ma mentre nel caso degli chef c’è un’apparente uniformità, in questo rimane il dubbio sul target cui si rivolge la manifestazione.
Vedremo se ci saranno miglioramenti anche sul fronte organizzativo in occasione della prossima edizione di Taste of Roma.
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