
Sono a Eataly per incontrare Gianluca Esposito, l’executive chef del ristorante Italia, situato al terzo piano dell’ultimo e più importante (almeno per dimensioni) punto Eataly, aperto dalla famiglia Farinetti nella capitale. In giro per il reparto vini, incontro Roy Caceres, altro noto chef che opera a Roma, intento a curiosare con alcuni suoi collaboratori al seguito tra le varie etichette presenti. Quando arrivo al ristorante gourmet di questa “mecca del gusto”, le pareti d’ingresso sono tappezzate con i volti di italiani di tutte le epoche, da Garibaldi a Cavour fino a Felicia Bartolotta (la madre di Peppino Impastato). Una lunga serie di gigantografie accompagnano i clienti dentro il ristorante – mi viene in mente La storia siamo noi di De Gregori – anche se come scelta d’arredo mi sembra un po’ scontata. Il ristorante è quasi interamente esposto alla luce, con una grande vetrata che affaccia su questo pezzo di periferia urbana oggi diventata radical chic. Gianluca Esposito è lo chef di Eataly da quattro anni, in pratica dall’inizio di questa grande avventura. È giovane, ha trent’anni, è bolognese di nascita e napoletano d’origine. Un giovane chef un po’ fuori dagli schemi della sua generazione: non ha un’infinita serie di esperienze professionali all’estero da vantare, e quando crea le sue ricette si fa consigliare soprattutto da un’amica. Timido, determinato e molto legato alle sue radici. Che sia questo il suo punto di forza?
Come è nata la tua passione per questo mestiere?
C’è un aneddoto carino che mi racconta sempre mia mamma: pare che già alla scuola elementare io dessi da mangiare ai miei compagni di scuola. Quando c’era qualche bambino inappetente, io andavo lì e gli davo una mano a mangiare. Ho imparato molto da mia madre, che è sempre stata brava in cucina, cucinava per mestiere, perché i miei facevano i custodi. Io infatti, fino ai sei anni ho vissuto in questa villa bellissima sui colli, e poiché questi signori producevano olio ed erano appassionati di cucina, in casa giravano sempre prodotti interessanti dal punto di vista culinario. Sono convinto che l’educazione al gusto da questo punto di vista sia molto importante, io l’ho ricevuta fin da piccolo in modo del tutto occasionale, però secondo me fa un po’ la differenza.
Ma chi ti ha introdotto al mestiere di chef?
Io vedevo queste cose che accadevano intorno a me già da piccolissimo, poi in seconda media ho deciso che avrei fatto il cuoco. A casa sperimentavo, poi ho studiato all’istituto alberghiero e all’età di 14 anni circa ho iniziato a lavorare nel tempo libero come cameriere. In seguito, per caso, mi sono trasferito di casa in un comune dove c’è un affermato ristorante, Amerigo a Savigno. Amerigo è diventata la mia prima esperienza professionale importante. Lì ho conosciuto Alberto Bettini, il titolare, capace e appassionato, e lì ho cominciato, facendo un po’ il cameriere e un po’ il cuoco, perché senza esperienza è difficile che ti prendano in cucina. Ho iniziato ad apprendere il mestiere insieme alle cuoche che ci lavoravano, in particolare grazie a una signora che mi ha preso per mano e insegnato la cucina classica. Stando lì ho iniziato a frequentare anche buoni ristoranti, ho seguito uno stage nel ristorante di Marco Fadiga, che adesso non c’è più. Insomma, a 17 anni ho vissuto questo genere di stimoli, il resto è venuto da sé.
Cosa intendi per alta cucina?
Per me l’alta cucina è un ristorante dove ci sia anche una filosofia di cucina. La mia è il grande rispetto per la materia prima e la semplicità nell’esecuzione dei piatti. L’alta cucina è un posto in cui si ragiona sempre su quello che si fa, non si fa solo da mangiare e basta, ma dietro c’è qualcosa di più, c’è una ricerca continua e una formazione costante del personale e di chi lavora insieme a me.
Come selezioni i tuoi collaboratori, quanti aiutanti hai in cucina?
In cucina siamo in undici. Questi ragazzi in buona parte provengono da Alma, la scuola di Gualtiero Marchesi. Di solito sono ragazzi che hanno un paio d’anni di esperienza, e che provengono da scuole diverse dall’alberghiero. Quindi hanno una formazione culturale spesso superiore, magari hanno fatto il Liceo Classico. Non mi sono rivolto all’Alma solo per questo motivo, ma trovo importante avere una buona formazione culturale. Nonostante io abbia scelto prestissimo di fare questo lavoro, ho visto anche che molte delle persone che erano a scuola con me poi hanno cambiato mestiere. Quindi penso che chi fa questa scelta dopo i vent’anni, e ha scelto un corso altamente professionalizzante come l’Alma, ha delle idee più chiare e sa a cosa va incontro, perché in cucina si lavora davvero tanto.
Tu però non hai seguito il percorso che seguono molti chef, andando all’estero per lavorare presso altri ristoranti famosi.
No, mi è capitato di fare un’esperienza di due settimane in Giappone, ho viaggiato molto per conto mio andando a mangiare in noti ristoranti in Francia e in Spagna, ma non ho avuto vere esperienze professionali all’estero. Anche perché dopo Amerigo, all’età di 23 anni mi è capitata l’occasione di aprire un ristorante e l’ho fatto. È stata un’esperienza molto soddisfacente, che è durata quattro anni e mi ha portato numerosi riconoscimenti, ma poi ad un certo punto si ha anche bisogno di cambiare e ho lasciato.
Come sei arrivato a Eataly?
Questa collaborazione è nata perché il responsabile di Eataly Bologna è Alberto Bettini. È stato lui a chiamarmi per aiutarlo ad avviare questo progetto. All’inizio, circa quattro anni fa, prima di tuffarmi interamente nell’avventura Eataly ero un po’ titubante, ora trovo che sia stata la scelta più felice che abbia fatto.
La filosofia di base di Eataly consiste principalmente in una contaminazione tra identità regionali. È un limite o un’opportunità?
Il progetto ristorante Italia è proprio quello di fare una cucina di tutta Italia. Noi abbiamo una carta fatta di venti piatti, quante sono le regioni italiane. Ci sono cinque antipasti, cinque primi, cinque secondi e cinque dessert e c’è un piatto dedicato ad ogni regione. Quindi tutte le volte che cambiamo il menu (una volta al mese) è un po’ complicato, perché devo sempre avere un piatto dedicato ad ogni regione. Ma è bellissimo, perché è uno stimolo. Anche se adesso ragioneremo sul fatto se sia corretto o meno cambiare menu così spesso.
Come t’ispiri nella creazione dei tuoi piatti?
Spesso chiedo aiuto a un’amica appassionata di cucina, Loretta, che non è una chef. L’ho conosciuta come cliente, e ogni volta che veniva dovevamo prepararle un piatto diverso. Ha un ottimo palato e mi incita a migliorare. Da lì è nata un’amicizia e un’affinità col mio modo di lavorare. Insieme per tre mesi abbiamo studiato la cucina regionale italiana, e abbiamo iniziato a fare i menu, lei mi aiutava ad essere ordinato nello scrivere tutte le ricette e nello studiare le preparazioni. E ora ho i menu già pronti per vari mesi.
Cosa c’è delle tue radici nei tuoi piatti?
Pare che il fatto che io abbia origine napoletana e abbia sempre mangiato le cose che cucinava mia madre mi abbia avvantaggiato, perché ho un palato che va da nord a sud. La cucina bolognese l’ho imparata stando con una ragazza bolognese, che cucinava ricette tradizionali. Però prima dei diciotto anni un buon brodo per i tortellini non l’ho mai assaggiato. Un piatto che mi porto dietro dalla mia memoria del gusto è senz’altro la parmigiana di melanzane di mia madre.
Qual è il piatto del menu che ti rappresenta di più?
Io sono particolarmente legato a un piatto che abbiamo creato insieme a Loretta, il minestrone freddo. Al minestrone freddo di sole verdure abbiamo aggiunto un composto di pancia di maiale macinata, condita con aglio e rosmarino e soffritta, cui viene mescolata della patata lessa. Questo composto è il pesto da tigelle emiliano, e noi l’abbiamo messo come base in questo piatto, per poi coprirlo con il minestrone freddo. Gratinato con il parmigiano, trasmette sia il concetto del pesto delle tigelle che del minestrone.
[Crediti foto: myslowburninglife.blogspot.com]
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