
di Gabrielle Hamilton (traduzione di Licia Vighi) – Ed. Bompiani
Mi sarebbe piaciuto apprezzare il libro di Gabrielle Hamilton “Sangue, Ossa e Burro” come “promesso” da varie recensioni più o meno osannanti, ma non ci sono proprio riuscito.
La Hamilton sembra scrivere fondamentalmente per “épater le bourgeois“, che non sa quanto è ai limiti del sovrumano essere chef e proprietaria di un ristorante né ha mai visto esplodere un ratto mangiato dai vermi e poi dovuto raccoglierne i resti e ripulire, il tutto nel retro del Prune, il suo famoso ristorante di New York (e tante altre situazioni al limite dello splatter), con un corredo di momenti epifanici, in cui da una piccola frase o azione scaturiscono visioni del mondo e verità definitive sulla vita. L’ultima parte, “Burro” (che forse sarebbe stato meglio chiamare “Olio”…), dedicata alle sue vacanze annuali a Santa Maria di Leuca e al rapporto con la famiglia pugliese di suo marito, è poi talmente piena di luoghi comuni da far ampiamente rimpiangere gli ultimi film “europei” di Woody Allen.
Va anche detto che raramente ho visto una traduzione di un libro “importante” così, come definirla… estemporanea e avventurosa, realizzata da qualcuno che sembra totalmente estraneo alla cucina e all’enogastronomia in generale (tre esempi: alla seconda riga del libro trovo “Cucinavamo agnello arrosto da latte”, a pag. 66 si beve “Cristalle”, mentre per spiegare cos’è un magret la traduttrice – che per queste note esplicative pesca a piene mani da wikipedia – scrive in nota che è un “filetto di carne magra tratta dal petto di un’anatra, o di un’oca, ingrassate”).
Insomma, “Sangue, Ossa e Burro” non è un libro che consiglierei, anche nell’interesse dell’autrice: con il passare delle pagine la protagonista-autrice mi è diventata talmente antipatica da togliermi qualsiasi voglia di andare a mangiare al Prune.
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